Gambarotta: «Quando Torino si dà un traguardo ne esce vincente»

Intervista all'eclettico scrittore «specialista della piccola borghesia»

Ai giovani dice: «Tenete duro, non fatevi influenzare dai giudizi negativi e dalle valutazioni pessimistiche»

Bruno Gambarotta Futurabile
23Apr '19

Gambarotta: «Quando Torino si dà un traguardo ne esce vincente»

Incontro Bruno Gambarotta per raccontarlo. Per descrivere una vita ricca di cambi di passo, trascorsa fino al 1992 negli studi della Rai, autore di programmi in radio e in televisione, conduttore, scrittore. Ma accade che ci soffermiamo sulla «sua» Torino. Quella che ama molto e quella che ama meno. Di certo è uomo (padre, marito, nonno) che sa guardare al futuro ancora adesso.

Bruno Gambarotta, narratore, cronista e cantastorie

Nel suo essere scrittore artigiano, come si definisce, Bruno Gambarotta (di Asti, classe 1937) fonde storia, cultura e vita vissuta. È insieme narratore, cronista e cantastorie. I suoi tempi non sono dettati dal “qui e ora”, dalla velocità. Le sue parole fluiscono lente e chiare: si spende con ironia, incrocia esperienze e incontri. E in un’epoca in cui tutti dimostrano di sapere tutto e rispondono sempre a tutto, Gambarotta si prende anche il tempo necessario per riflettere e dopo un lungo silenzio ogni tanto mi risponde: «Mah, veramente non saprei…».

Caro Gambarotta, qual è la sua visione sul futuro di Torino?

«Non ho visioni. Il mio mondo è quello del quotidiano. Lo sforzo costante negli anni è stato raccontare le cose minime. Per questo mi hanno definito lo “specialista della piccola borghesia”. Adesso sono un po’ in difficoltà: la piccola borghesia non parla più come una volta e dialoga solo con il tablet. Prima andavo all’ufficio postale quando c’era tanta gente oppure nella sala d’attesa del medico di famiglia: lì la gente parlava e io memorizzavo le storie, i sentimenti. Registravo i cambiamenti. Adesso invece sono tutti muti, anche i centenari».

Quali potenzialità vede comunque nella città del 2019?

«Ho sempre pensato che Torino avesse bisogno di una meta, un traguardo da raggiungere. Una missione. Sono esemplari in questo senso le storie legate alle celebrazioni dei 100 e 150 anni dell’Unità d’Italia, le Olimpiadi… Ho vissuto dodici anni a Roma e se chiedete a un romano qual è il suo obiettivo, vi risponde la quotidianità, la sopravvivenza. La Capitale non ha questa visione del futuro che è nel Dna di Torino. Non dimentichiamo che la nostra città è nata come una grande caserma: i Savoia erano una dinastia militare e la Fiat è fiorita qui proprio grazie a questa impronta. Da qualche tempo però sento dire che si è seduta, è orizzontale».

Trasformazione o rallentamento? C’è un obiettivo nuovo che i torinesi potrebbero darsi?

«Torino potrebbe diventare la città della formazione, dell’educazione permanente, del Politecnico, della ricerca. Ha sempre avuto questa vocazione pedagogica. Sarà anche per questo che ci vedono come “maestrini” che vogliono insegnare agli altri. Ricordo i direttori che ho cambiato nel tempo: piano piano ho smesso di correggere i loro errori, si offendevano. Mi davano del “maestrino”. Ma deve sapere che mio nonno, mio padre e mio zio erano tipografi. Io ho lavorato in tipografia fino a 25 anni. Anche solo un accento, una dieresi per me sono fondamentali. Soffro all’idea di qualcosa di impreciso. È molto torinese. Oppure lo era…».

Bruno Gambarotta è comunque ottimista?

«Assolutamente sì. Ma solo perché amo molto Torino e mi piacciono le sfide. Anche quelle “impossibili”. Noi torinesi siamo “ordinari”, persone quadrate: non facciamo scadere una bolletta, se riceviamo una multa corriamo a pagarla. Ma in questo panorama di “yes man”, spiccano sempre dei visionari. Penso, per esempio, a Benedetto Cottolengo, Adriano Olivetti, Giulio Einaudi, Carlo Mollino, Alessandro Antonelli, Don Ciotti, Oscar Farinetti, Carlin Petrini ma anche ad Angelo Pezzana che con una fidejussione a garanzia di 6 miliardi di lire ha fondato il Salone del Libro. Spero che in futuro ne nasceranno altri: in qualche cantina, in qualche garage. Modello Silicon Valley».

Che cosa le piace di più del torinese?

«L’understatement, l’estrema prudenza. Non fare mai il passo più lungo della gamba. La riservatezza. Non mi piace invece la “piccineria”. Cesare Pavese diceva che Torino “è tutta una portineria”. E poi la doppiezza: il torinese non si schiera mai. Se gli chiedete “Ti piace o non ti piace?”, la risposta è “Conforme”. Resta nel mezzo, non si sbilancia. E poi le doppie verità: si dice ma non si scrive. E quando qualcuno lo ha fatto, è stato tagliato fuori».

Bruno Gambarotta ammiccante e pensoso

Quando pensa alla sua Torino prova nostalgia?

«No no, in passato si stava decisamente peggio. La Torino della mia giovinezza era tristissima, fumosa. Io arrivavo da Asti. Ho fatto per quattro anni il pendolare in treno. Poi salivo sul tram, mi soffiavo il naso, il fazzoletto era nero».

Quando ha visto cambiare la città?

«Con Italia 1961. Si è trasformata: è stata la prima grande sorpresa. Avevo 24 anni».

Oltre che un ottimo cuoco, lei è anche un appassionato ciclista: che cosa ama della due ruote in città?

«Mi piace guardare i cortili, le vetrine, le librerie, le panetterie. Mi posso fermare quando voglio, cambiare percorso. Andare sotto i portici e vedere la gente che si arrabbia. C’è un luogo che amo più di tutti: piazza Vittorio e la Gran Madre dal fondo di via Po, quando il sole muore sulla città. Mi commuovo ogni volta».

Lei ha lavorato molto sul concetto di memoria: perché? Quanto è importante oggi?

«Lo è sempre di più. Vivo molto del mio tempo negli archivi e sono anche presidente di un archivio storico. La memoria serve per dare profondità, per far diventare tridimensionale il presente. Essere schiacciati solo su di esso è una vera disgrazia. Eppure mai come oggi c’è così tanta possibilità di leggere il passato».

Come vede la generazione dei ventenni?

«È sotto utilizzata. Stiamo vivendo un eccesso di preparazione: una vera overdose rispetto al loro reale utilizzo. Mi creda, ho quattro nipoti e i giovani mi fanno molta pena: per lavorare devono andare all’estero, il sistema è bloccato. Ma se questo non è un Paese per vecchi e non è un Paese per giovani.. per chi è questo Paese?»

Bruno Gambarotta allarga le braccia

Un consiglio ai giovani torinesi che avranno la responsabilità di questa città?

«Tenete duro. Non fatevi influenzare dai giudizi negativi, dalle valutazioni pessimistiche».

Suggerimenti per buone letture?

«Senz’altro Sciascia, Calvino per la sua scrittura limpida, bella, lineare. Marguerite Yourceanr con L’opera al nero non solo Memorie di Adriano. E poi Albert Camus, un narratore meraviglioso: la sua è la più bella prosa francese di tutti i tempi. Non solo: il filone degli americani, delle storie brevi come Carver o i 39 racconti di Ernest Hemingway. Ma pure la scrittrice canadese Alice Munro e i racconti brevi di Cechov. In tutti c’è la capacità di giocare con la sintesi, con la brevità».

Che cosa legge invece Bruno Gambarotta?

«Leggo tanto, tantissimo. Soprattutto saggistica storica del passato. Non sono attirato dal contenuto, piuttosto dallo stile. Per questo, c’è un autore che leggo e rileggo in continuazione. È Beppe Fenoglio, un classico moderno. Un piemontese».

Carla De Meo (Treviso, 1966), giornalista professionista, contributor La 7, è nel network di Spazi Inclusi. Ha lavorato al Gazzettino, Antenna Tre e nel sistema camerale del Veneto.

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