Gli stipendi degli italiani sono fermi da 30 anni. La mobilità sociale è in stallo. È svanito “quel” reddito che permetteva di migliorarsi, di investire sul mattone, sull’auto, sulla formazione. Che permetteva di pensare che i figli avrebbero avuto più dei padri. Risultato: si è persa la speranza, si è consumata la fiducia nel futuro. E si cammina in bilico sul crinale di un Paese che non riesce ad invertire la rotta.
Qualcosa a livello europeo si muove. È di queste ore una storica intesa: l’approvazione in sede europea della direttiva sull’introduzione del salario minimo equo che dovrebbe evitare la concorrenza sleale tra Stati e il dumping salariale (l’Italia è tra i sei Paesi europei che non ha al momento una regolamentazione propria su questo tema). Resta da capire nei prossimi mesi quale sarà il reale impatto di questa indicazione nel nostro Paese. Quello che al momento è certo è che fanno discutere i disastrosi dati Ocse.
Stipendi: siamo il fanalino di coda tra i Paesi Ocse
Gli stipendi degli italiani sono fermi da 30 anni. Lo dicono i dati resi noti dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. L’Italia è l’unico Paese dell’Ocse dove, dal 1990 ad oggi, i salari annuali medi non solo non sono cresciuti, sono addirittura diminuiti: del 2,9%. Qualche confronto per chiarirsi le idee, restando dentro i confini europei? Germania: i salari sono cresciuti del 33%. Francia: i salari sono cresciuti del 31%. Se poi vogliamo prenderci uno schiaffo sonoro, saliamo al Nord dove in Svezia lo stipendio medio annuale è aumentato addirittura del 63%.
Le diseguaglianze al Festival dell’Economia di Torino
Questo il quadro generale. Se poi si scende nel dettaglio dell’analisi, si scopre che ad essere ulteriormente penalizzati da questo negativo trend decennale sono i giovani e le donne. Una fragilità che diventa ancora più evidente nei periodi di crisi come emerge dalla ricerca “Famiglie, la diseguaglianza della ricchezza” presentata al Festival Internazionale dell’Economia di Torino, negli spazi del Collegio Carlo Alberto (torneremo su nostro blog su questo incontro e sui temi che sono stati approfonditi, ndr).
Su dati e grafici inediti degli ultimi 20 anni della ricerca firmata Centro Einaudi, Banca Intesa San Paolo, BVA-Doxa, sul risparmio e le scelte finanziarie degli italiani, si sono confrontati Giuseppe Russo, direttore Centro Einaudi, Elsa Fornero, docente di Economia politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Torino, e Mauro Marè, direttore dell’Osservatorio sul Welfare della Luiss Business School.
«Quando un Paese declina, è difficile che qualcuno si salvi»
Attribuire ora le responsabilità di quanto fin qui detto conta poco. Sicuramente vanno distribuite tra politica, parti sociali, cittadini, istituzioni formative… Ma se puntare il dito oggi non ci restituisce redditi più generosi – e in linea con l’Europa – ci serve senz’altro a capire come siamo entrati in questo tunnel e da dove possiamo ripartire per cercare di uscirne. Altrimenti, come ha detto Elsa Fornero, «quando un Paese declina, è difficile che qualcuno si salvi».
«Redditi più alti? È l’istruzione a fare la differenza»
Per Giuseppe Russo, direttore del Centro Einaudi e curatore della ricerca, bisogna ritornare ai fondamentali. Quei fondamentali che abbiamo perso per strada perché pensavamo che percorrere scorciatoie ci avrebbe comunque portati vincenti all’obiettivo. Ma così non è stato. E spiega a Futurabile perché e quando ci siamo allontanati dall’Europa.
Carla De Meo (Treviso, 1966), giornalista professionista. Ha lavorato per il Sistema Camerale Veneto, al Gazzettino, ad Antenna Tre. Conduce convegni ed eventi formativi (Made Expo, Edilportale) si occupa di comunicazione strategica di progetti online e offline (edilizia, sostenibilità, economia circolare, comfort, hotellerie).