Smart city, smart building, smart mobility, smart work. La parola riecheggia all’infinito. Risuona. Spicca sulle locandine di incontri, eventi e convegni. S’insinua negli articoli di giornali, apre le trasmissioni televisive e crea dibattito e riflessione fra addetti e non addetti ai lavori. Viene ripetuta come un mantra da politici, ricercatori, esperti di ogni settore. Ritorna – slogan quasi ossessivo – dal Nord al Sud dell’Italia, anche in contesti in cui il concetto è così lontano da essere appannaggio di un mondo completamente virtuale.
Dire che il futuro degli uomini dovrà essere smart è un po’ come affermare che il Pianeta Terra – se vorrà sopravvivere – dovrà essere sostenibile.
Così evidente, così lapalissiano. Scontato, in buona sostanza, da non avere più l’appeal della novità.
Possiamo davvero immaginare una città o un territorio che non investa nel potere della sua intelligenza? Che non scommetta nel rendere più facile, veloce, flessibile e accessibile la vita dei propri abitanti?
Il vero passo in avanti, tuttavia, consiste nel mettere a fuoco che cosa s’intenda con il termine smart city. Ed è molto di più della semplice sostituzione dei sistemi di illuminazione pubblica con luci a led. Va ben oltre alla affermazione dei mezzi in condivisione o all’uso di una app per prenotare cene o pasti a domicilio.
Fra le tante definizioni che mi è capitato di sentire di recente, mi ha colpito quella di Stefano Franco, urbanista e ceo della start-up U.lab, società specializzata nei processi di riqualificazione urbana, parte del gruppo United Risk:
«Una città può definirsi smart city quando garantisce la qualità complessiva del proprio ambiente di vita».
Non è un questione di pura e semplice tecnologia. Ma è il buon governo della tecnologia stessa, messa a sistema perché l’uomo possa trarne vantaggio.
Che si tratti di mobilità, risparmio energetico, gestione e reimpiego di un bene fisico, tutela dell’ordine pubblico o erogazione di un servizio, ciò che fa la differenza – secondo questa prospettiva – è la capacità di impiegare l’innovazione e l’evoluzione del mercato tecnologico per dare risposte rapide ed efficaci alla persona. Che chiede sempre di più di vivere in un contesto attento alla tutela della salute (psichica e fisica); ricco di stimoli e sicuro. Smart, per esempio, è l’edificio che usa le proprie caratteristiche fisiche o le dotazioni impiantistiche per rispondere ai bisogni materiali o immateriali di chi lo abita.
Smart city è la città che governa i propri spazi, usando anche le risorse virtuali e digitali per determinare le ricadute reali. Che sa indovinare i bisogni di mobilità, individuale e collettiva.
La smart city mette in gioco l’esubero del patrimonio immobiliare costruito per assecondarne il riuso in funzione delle necessità (anche mutevoli e puntuali) degli abitanti. Che presidia e contrasta fenomeni di degrado e criminalità, programmando le proprie attività anche tramite il web o i social. Che sa, insomma, utilizzare la tecnologia per accelerare quelle risposte che l’urbanistica – con i mezzi e i tempi della concertazione definiti dalle procedure di legge – non è più in grado di dare.